
Quasi un testamento spirituale incompiuto di Flaubert, quest'opera vede in un certo senso coincidere i due temi di santità e stupidità. I due amici protagonisti, due semplici e mediocri copisti, volonterosi e patetici nel loro far appello al sapere, nel loro libresco affrontare l'esperienza da deliziosi imbecilli, consentono a Flaubert di colpire la cultura delle idee cui fanno riferimento con innocenza e disarmante fiducia. Il loro ridicolo entusiasmo culturale, assurdo e patetico, ora donchisciottesco, ora rabelaisiano, implica l'accanimento dell'autore contro il fallimento di una concezione di cultura.
L'8 maggio 1880 Gustave Flaubert moriva improvvisamente senza aver potuto terminare Bouvard et Pécuchet, l'opera dal piano temerario e terribile cui lavorava ormai da molti anni. Sul tavolo di lavoro lasciava una pagina incompiuta e sparsi per la stanza i ritagli e le note per la seconda parte dell’opera. Lo scrittore francese, oltre a collezionare le opinioni degli uomini del suo tempo così come esse si potevano ascoltare nei salotti o nei foyer dei teatri, aveva raccolto dai libri più disparati una quantità impressionante di perle della bêtise bourgeoise: lo sciocchezzaio. Per questa impresa aveva fino ad allora letto più di 1500 volumi, oltre che articoli di giornali e riviste.
Il materiale trovato nella stanza di Flaubert, ora nella biblioteca municipale di Rouen in un voluminoso dossier intitolato «Raccolta di documenti vari raccolti da Flaubert per la preparazione del Bouvard e Pécuchet». Si tratta di otto tomi rilegati di circa 300 fogli ciascuno: ritagli di stampa, schede di lettura e note di diverse, tutte di sua mano. Quel che egli stava raccogliendo per poi dare alle stampe sotto forma di farsa erano le evidenze della stupidità umana in generale, così come essa si manifestava nella contemporaneità, e per la quale egli provava il più profondo disgusto, quasi temesse di venirne contagiato. In opere diverse, ma tutte aspiranti a fondare discipline o campi del sapere sia teorico che pratico (storia, scienze, filosofia, religione, morale, politica, estetica, ecc.), come anche in testi letterari, di autori sia grandi che mediocri, Flaubert si era accanito a trovare e ad isolare i segni del luogo comune, della stupidità, animato (com'egli dichiarava) da spirito di vendetta. Lo scrittore aveva infatti scritto nel 1863: «Il y a quelqu'un de plus bête qu'un idiot, c'est tout le monde».
Nel dossier confluiscono i pregiudizi sociali, religiosi e politici, i fanatismi, le contraddizioni, la mancanza di rigore scientifico, i residui di spiritualismo nelle più diverse discipline e tecnologie, la superficialità delle opinioni. Una parte di ciò era già stato elaborato, in altra forma, nella prima parte del Bouvard et Pécuchet, in cui Flaubert, consapevole dell'enormità e della novità del suo impianto, che non sapeva come definire, avrebbe voluto «si vedesse un romanzo filosofico». Questa prima parte fu pubblicata già nel 1881, l’anno successivo alla morte dello scrittore.
Vi si raccontano le disavventure cui vanno incontro i due bonshommes Bouvard e Pécuchet, due copisti che il caso e la similitudine hanno portato all’amicizia, in seguito all'eredità ricevuta dal primo. Dopo una fallimentare esperienza come proprietari terrieri, affascinati dalle virtù del sapere, entusiasti e illusi rappresentanti del secolo del positivismo, si lanciano a capofitto nel mondo dei libri. Dalla chimica allo spiritismo, dalla filosofia alla religione, dall'agricoltura al magnetismo, dall'archeologia alla pedagogia, non esiste branca dello scibile umano che si sottragga alla loro frenesia indagatrice.
Nel loro ritiro campestre di Chavignolles i due si dedicano con entusiasmo da neofiti allo studio e alla pratica delle più disparate discipline e tecniche. L'ambizione faustiana, la passione per ogni nuova branca dello scibile umano è in loro animata dalla speranza di attingere a verità assolute che guidino il comportamento e mettano ordine nel caos. Ma la loro fiducia nell'autorità dei testi è sistematicamente sottoposta alla critica inflessibile del principio di non-contraddizione, che li espone a una delusione dopo l'altra.
In effetti, la pluralità delle opinioni che dialogano in questo testo, insieme ai ripetuti tentativi dei due idiots savants di verificare le teorie alla luce di una prassi (se pure cieca), evidenziano l'impossibilità di riunire le varie conoscenze, ipotesi, interpretazioni e pratiche in un sapere unico. Un pessimismo della conoscenza smonta e rende nullo l'accumulo di nozioni e opinioni. Nel confronto che si instaura tra i testi portatori di teorie diverse, spesso opposte o comunque contrastanti, emerge come la contraddizione stia a fondamento dei fatti e del pensiero umano. Essa, nell'esperienza dei due amici, allontana dalla verità, lascia insoluti gli enigmi, anzi ne crea di nuovi; la realtà con cui i due fulgidi imbecilli, tragici e sinistri nella loro idiozia, tentano costantemente un aggancio sulla spinta del desiderio, rimane fuori, sfugge al linguaggio, alla scrittura, è un mistero che incanta, o «un'illusione, un brutto sogno», «il niente», per cui non valgono consolazioni. Alla fine, sopraffatti dal compito immane e dalla loro stessa incapacità, decidono di tornare a copiare.
La decisione finale dei due, i quali nel frattempo, essendosi inimicati tutto il villaggio con le loro stravaganze e polemiche, vivono nell'isolamento riservato dalla società ai folli, sarà quella di trascrivere passaggi della scrittura altrui, dapprima «tutto quello che gli capitava sotto mano», poi facendo una «classificazione», scegliendo sia «esemplari» dei vari stili che «perle» con cui redigere una «storia universale», un «monumento» da cui risulti l'uguaglianza di tutto, del bene e del male, del Bello e del brutto, di ciò che è insignificante e di ciò che è caratteristico. Nella finzione letteraria essi si sobbarcano lo stesso lavoro, abbastanza incomprensibile per via della sua qualità maniacale e pedantesca, svolto negli anni dallo scrittore.
Questo è infatti uno dei libri più personali e profondi che Flaubert abbia scritto. Nella constatazione che un'immensa, incrollabile stupidità, un'armatura di luoghi comuni, di frasi fatte, di credenze e ideologie accettate, coprisse la sostanziale nullità del mondo, egli vedeva una sola speranza: riuscire a tenere insieme il mondo dei fatti costruendo con il rigore estremo della scrittura, una rete sospesa sul nulla del significato. Ma Bouvard e Pécuchet però sfuggono di mano al loro creatore. Prendono sul serio non solo i luoghi comuni, ma le scienze, la filosofia, la religione, la politica, le tecniche. Si applicano a esse con accanito furore, e le spingono fino alla loro verità ultima: alla loro incapacità di dare risposta al mistero del mondo. E quando, alla fine, ritornano all’atto puramente meccanico della copiatura, rivelano anche l'illusione di Flaubert di tenere insieme il mondo con la scrittura. Essa non può opporsi al vuoto della bêtise, è ridotta al puro gesto fisico dello scrivere.
Dall’archivio di Rouen sono emersi alcuni frammenti indipendenti abbastanza rifiniti da permettere la pubblicazione, autonoma o come appendice del Bouvard e Pécuchet. Il più noto è il Dizionario dei luoghi comuni, organizzato nella forma di maliziosi “consigli” di comportamento, che costituiscono una sorta di ironico galateo borghese. Sotto ne riporto un florilegio. Ancor più che nel testo compiuto, da questa divertente e mostruosa raccolta emerge lo spirito sarcastico di Flaubert. E, soprattutto, viene il dubbio, già espresso da Borges, che i due copisti sono fuori del tempo: essi sono ancora lì, chini sulla scrivania, intenti a copiare. Il loro lavoro è infinito e sempre incompleto.
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