Thomas De Quincey: CONFESSIONI DI UN OPPIOMANE

Un tavolo scheggiato, immerso nel cono intermittente di una debole lampadina; sopra di esso una montagnola, una catasta di oppio; sottili lamelle di oppio bollito, appallottolato in tanti piccoli grumi, poltiglie mescolate a spezie o canditi; uomini, tutt’intorno, che si strafogano quelle narcotiche polpette, infilandosele in gola a ritmo serrato, tre o quattro alla volta; uomini ossuti, quasi scheletrici, dalla pelle grinzosa e gialla come una crosta di formaggio, gli ultimi dannati della società; fra di loro un tizio dalla mascella pronunciata e la pelata incipiente che, seppur frastornato dall’ingozzata, non può fare a meno di continuare a riversare il muso nel trogolo; il suo aspetto nobile è inficiato dalla cupida voracità che gli brilla nello sguardo; le sue maniere, solitamente gentili e aggraziate, sono sconvolte dalla bestialità del banchetto.
Un giorno metterò nero su bianco tutto questo orrore”, pensa l’uomo nel suo mistico delirio. Già, scriverò un libro. Lo chiamerò Confessioni di un oppiomane”.

De Quincey imbeve la penna nell’acido più corrosivo; smaschera, ribalta, capovolge, deride, sghignazza sotto i baffi, si compiace con un risolino delle proprie facezie, prende in giro il lettore, demolisce costruzioni, e tesse una beffa dopo l’altra. La sua narrazione, pur conservando un’impeccabile linearità, è un continuo paradosso; un paradosso sottile, velato, che si compone di strizzatine d’occhio, battutine estemporanee, giochi di parole, zoomate improvvise su particolari insignificanti e altrettanto repentini cambi di prospettiva, che abbracciano l’integrità grottesca del mondo.
Insomma: altro che drogato! De Quincey non è un Mark Renton d’inizio Ottocento, ma un narratore fra i più geniali, un trapezista della sintassi, di quelli che fanno cozzare l’aulico con il prosaico, in grado di combinare la comicità ammiccante di un Charles Dickens alla granitica posatezza di Samuel Taylor Coleridge (i due, lo ricordiamo, furono amici e condivisero la stessa passione per i “paradisi artificiali”, ed è famosissimo in tal senso l’episodio di Giovanni Battista Piranesi); un personaggio affamato tanto di oppio quanto di classici greci e latini, da lui spolpati fino all’osso; come lo definisce Jorge Luis Borges, «un tenue oppiofago erudito».
Se l’ibrido vi affascina, vale la pena di dare una spolverata a questo testo. Se volete affacciarvi sulle psichedeliche balconate viste da De Quincey, meglio stancarsi gli occhi su un libro così che rischiare l’epatite facendo scorpacciata di rotoli d’oppio.

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