Tutti i primi dischi in studio dei Phish fino a "Hoist" contengono nel loro corollario, chi più chi meno, delle perle, che trovano una loro più ampia configurazione nelle esecuzioni dal vivo, che come si sa, il gruppo amava stravolgere fino all'inverosimile. In questo caso, però, ci piace ricordare i Phish racchiusi fra le mura di uno studio dipanarsi in felici lavori come "Junta", "Lawn Boy", "Rift", "Hoist" e, appunto, "A Picture of Nectar", che spicca il volo nel forsennato drumming di apertura di "Llama". Un puro esempio di Phish-sound, in cui il tecnicismo convive con il cuore propulsivo delle emozioni, senza soffocare quest'ultime, un funky-rock veloce, diviso in più parti da introduzioni tastieristiche che vengono squarciate poi da autentiche fughe chitarristiche dissonanti e liriche nel contempo. Un brano con visibili nervi guizzanti, che dipingono un muscolare corpo sonoro senza crepe.
"Eliza" cambia totalmente scenario: è infatti una piccola composizione strumentale di un minuto e mezzo, e il suo skyline si riflette nelle sinuose forme classiche di stampo pianistico che zampillano riuscendo a dare la sensazione di una bellissima spontaneità melodica. Con "Cavern", invece, ritorniamo in un'ambientazione ancor più marcatamente funky nella ritmica chitarristica, mentre in sottofondo le tastiere punteggiano i sensi ritmici del brano e prende corpo il piacevole ritornello centrale. "Poor Heart" ci riporta al vecchio country-western a base di banjo, pedal-steel veloci, con il basso di Gordon che mantiene cadenze piuttosto sostenute.
Ma è con "Stash" che il gruppo disegna uno dei suoi più grandi capolavori: a una lunga introduzione strumentale, in cui Anastasio rilegge a modo suo certe sonorità latine attraverso liquide linee chitarristiche che semplicemente "cantano" la melodia per poi contorcersi in se stesse, fa seguito un sublime concentrato di solismo chitarristico, con visionari lirismi che raggiungono il loro climax in un concentrato cacofonico ai confini della rottura.
"Manteca" altro non è che una piccolissima introduzione che serve a portarci a contatto di "Guelah Papyrus", atipico brano illuminato da caldi e soleggiati ritmi reggae: il cantato è pimpante, e la melodia viaggia entro confini rilassati, spezzati però nel solo pianistico centrale che cambia tutto, trasportando in ambientazioni jazzistiche, in cui al piano si intreccia e sovrappone la chitarra, creando un effetto "a ragnatela" che sconfina in un'oasi dissonante.
"Magilla" è un altro gioiellino, sottolineato dalle eleganti spazzolate di Fishman, e soprattutto dal tocco pianistico di McConnell, che svaria fra scale jazz e altre tipicamente classiche, tendenti a ricreare atmosfere fumose dal forte sapore bohemienne.
"The Landlady" è un nuovo tour de force chitarristico dove Anastasio cita senza falsi pudori Carlos Santana, scivolando velocemente sul manico, sulle onde di una melodia latina piena di brusche interruzioni e secche accelerate, in definitiva una goduria per chi ama le scale modali e le improvvisazioni innestate su di esse.
"Glide" viene introdotta da un basso che scava vortici profondi, assecondato da lugubri entrate pianistiche, mentre un cantato corale a cappella infonde una sensazione di quiete pastorale. "Tweezer" è invece uno dei grandi classici del gruppo, un brano sempre presente nelle performance live, che con con i suoi arrangiamenti aperti è fatto apposta per vivere sulle corde dell’improvvisazione; è un funky sincopato, frammentario, con una melodia ruotante su stessa, ripetitiva e ipnotica, il cantato è un continuo contrapporsi di canti e controcanti, Anastasio e Gordon incessantemente pilotano la stessa melodia per poi trasportare l’ascoltatore entro ambiti fatti di pura dissonanza, con quell’effetto così volutamente cacofonico da trasmettere una forte sensazione di disagio.
"The Mango Song" appare subito come una composizione più solare, in cui è facile farsi cullare in quel cantato corale così apparentemente sgraziato, eppure nasconde sfumature che ben si evidenzieranno in seguito nel ritornello azzeccato e melodicamente più accattivante, come azzeccato è anche l’intermezzo centrale in cui chitarra e piano dialogano tra loro, per poi rimandare il tutto a quel punto di partenza volutamente scombinato, il tutto intervallato dal ritornello. In definitiva, un classico esempio del Phish-sound, dove tutto cambia, dove tutto mai è uguale a se stesso. Una continua evoluzione e una frenesia che sbeffeggia i classici canovacci della canzone basata sul canonico schema del riff-strofa-ritornello-strofa-assolo ecc.
"Chalk Dust Torture" è uno dei brani più immediati dell’intero catalogo del gruppo: puro rock and roll, trascinante e forsennato, che si regge su un granitico riff chitarristico e su una melodia killer; a impreziosirlo, uno strepitoso solismo di Anastasio, che letteralmente sodomizza la chitarra attraverso note alte tirate allo spasimo e con un grandioso controllo del feedback.
"Faht" è invece uno dei rari momenti di cedimento del disco: un piccolo strumentale di chitarrismo folk, con in sottofondo una base registrata di suoni ambientali. I Phish si cimentano in questo caso in un settore a loro non consono, rimanendo imprigionati in una melodia (oltreché elementare) senza via d’uscita; in definitiva, un riempitivo.
"Catapult" sono 30 secondi di parlato che servono a introdurre "Tweezer Reprise", brano quasi totalmente strumentale e magnifico nel suo crescendo; un arpeggio elettrico in solitudine, pochi momenti e il piano inizia a tratteggiare lo scenario sonoro, la batteria e il basso entrano insieme creando una melodia torrenziale e donando un senso di profondità, fino al cantato corale, che, come un'esplosione finale, chiude il disco con autentici fuochi d’artificio.
Trey Anastasio e compagni riscrivono a modo loro tutta la storia passata e presente della musica americana. La riscoperta del folk si concentra su quello più artigianale di stampo cantautorale, sia nelle forme che nei contenuti; il progressive di stampo inglese più romantico e barocco alberga qua e là in certe composizioni; il free-jazz avanguardistico riesce a trovare uno spazio che molto spesso raggiunge il proprio climax attraverso esplosioni cacofoniche. Le sonorità latine sono un'altra componente non secondaria: una riscoperta di culture altrui che, seppur lontane dal Vermont, risultano essere sempre credibili grazie al delicato gusto compositivo e al feeling interpretativo/esecutivo. Non risulta impossibile imbattersi anche in improvvise evoluzioni vocali a cappella, sull'onda del nonsense zappiano. Infine, c'è il jazz, quello più tradizionale, quello degli anni Cinquanta, che può benissimo trovare una sua ben delineata collocazione in trame melodiche tipicamente pop di facile fruibilità.
Tutto questo, e molto altro, ha sempre un suo esatto compimento e sempre grazie al perfetto equilibrio delle dinamiche, usate con sapienza da Anastasio, molto spesso in complicità con gli altri componenti, che rispondono al nome di Mike Gordon al funky-bass, Page McConnell a piano e tastiere, e Jon Fishman alla batteria e alle percussioni.
In definitiva, i Phish sono un caleidoscopio ove convivono varie discipline, dalle molteplici tonalità cromatiche. Anziché risultare eslusivamente "acidi", come nel caso dei Grateful Dead, e quindi più ancorati ai loro tempi, i Phish rispettano il passato e vivono nel presente in perfetta armonia, rendendo la loro musica mai superata e quindi destinata a durare e a rinnovarsi di pari passo con il trascorrere del tempo.
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