"Noi siamo ciò che mangiamo". Questa è una delle fissazioni di Salvador Dalì, poco conosciuta ma molto significativa per comprendere buona parte della sua filosofia (o ciò che lui voleva noi credessimo tale). Dalì era ossessionato da tutto il processo nutritivo-digestivo, dal piatto di portata fino all'espletazione dei bisogni fisiologici: l'inventore delle uova al tegame senza tegame controllava infatti scrupolosamente ogni suo prodotto intestinale, analizzandolo in ogni particolare con vista, olfatto, forse anche tatto; ne calcolava il tempo e la frequenza di produzione
nonché la fatica o il piacere provati nell'atto e ne deduceva le proprie condizioni di salute presenti e passate e i giusti accorgimenti da prendere per quelle future (metodo paranoico-critico). Arrivò, in momenti di autocelebrazione massima anche ad affermare che le sue feci fossero pulite, linde ed inodori data la sua perfezione cosmica. Eppure questa sua mania stava per giocargli un brutto scherzo: ai tempi del "Gioco lugubre" (1929), i suoi amici, surrealisti e non, lo avevano addirittura sospettato di coprofagia, per quell'immagine dell'uomo dalle mutande sporche dei propri escrementi descritta in primo piano con impeccabile realismo; e, narra la leggenda, fu proprio Gala, la sua futura moglie, l'unica ad avere il coraggio di affrontare l'argomento faccia a faccia con lui, che prontamente rispose:"[...] la scatologia è per me un elemento scioccante, proprio come il sangue e le cavallette [...]" giurando inoltre di aborrire una simile perversione e salvandosi così la faccia ed il futuro (anche se successivamente convertirà un giocoliere in un coprofago per rendere daliniana una notizia qualsiasi). Anche se mascherati, gli escrementi perseguiteranno Dalì per tutta la vita e per gran parte della sua produzione artistica: probabilmente fu condizionato dal pensiero di Paracelso secondo il quale l'escremento è simbolo di vita e lo parafrasò quindi aggiungendo che "se la merda fosse semiliquida, come un filo simile a quello che le Parche tessevano o tagliavano a loro piacimento, la vita stessa sarebbe più lunga". Così nei suoi quadri,
la merda come realmente la conosciamo viene a materializzarsi in corpi in decomposizione dai colori di terra (Solitudine paranoico-critica, 1935, Costruzione molle con fagioli bolliti, 1936), metaforizzata nei numerosi "Pani francesi" sì dalla forma freudianamente fallica, ma anche di "stronzo" comunemente inteso, o meglio ancora disciolta in ogni suo oggetto molle (Persistenza della memoria, 1931, Autoritratto molle con pancetta fritta, 1941, Burocrate medio atmosferocefalo che munge un arpa cranica, 1933 ecc.). Non possiamo non notare in "Cannibalismo d'autunno" (1936) un'analogia formale tra i vari stereotipi di escremento (sciolta, a piramide, secca ecc.) negli elementi della composizione; se poi facciamo i conti con il titolo, l'allusione alla coprofagia diviene implicito. Lo stesso "Autoritratto molle con pancetta fritta" (1941) può essere interpretato attraverso il binomio merda-vita (inteso come merda-essenza), in cui la pancetta fa da mediatrice tra le due entità. Il biomorfismo diviene quindi una trasmutazione dell'escremento: la cosiddetta "forma viva" non è solo una simbiosi materiale tra organico e inorganico ma assume un significato filosofico molto più viscerale; così come la merda, che tutti denigriamo e disprezziamo, assume un ruolo quasi personificante; crea un legame con il tempo (forse misurabile dal numero di grucce che lo sostengono) e con lo spazio. Le forme perdono la propria rigidità non per avere un aspetto maggiormente naturalistico bensì per raggiungere quell'immortalità dall'artista sempre agognata. Sotto quest'ottica, i biomorfismi perdono ogni aura di sensualità e di morbidezza (nel senso piacevole del termine) in favore di un significato archetipico universale, il desiderio di continuità nello spazio-tempo, complementato dalle numerose altre complicate simbologie che li circondano in ogni opera.
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