Si tratta di un personaggio fittizio, Zeno Cosini: egli è un ricco esponente della borghesia commerciale triestina, che, per guarire dalle sue nevrosi, si rivolge ad uno psicanalista, il dottor S., il quale gli consiglia di scrivere le tappe fondamentali della sua vita, da cui poi trarre il materiale necessario per una terapia psicoanalitica. Di fatto, il romanzo inizia con una prefazione del dottor S., che dichiara di pubblicare le memorie del paziente per vendicarsi della sua improvvisa sospensione della cura. Segue un preambolo con i primi tentativi di autoanalisi, dopo di che si entra nel pieno della descrizione del diario, dove, attraverso sei episodi tematici, si colgono le varie tappe della "coscienza di Zeno":
- il fallito tentativo di superare il vizio del fumo;
- il difficile rapporto con il padre;
- la grigia e assurda storia del suo matrimonio;
- la storia della fallita relazione extra-coniugale;
- l'impresa commerciale avviata con il cognato e positivamente condotta dopo la morte di quest'ultimo;
- la convinzione finale di essere sano e di volersi liberare definitivamente dalla cura.
Nella sua ottica, i valori su cui si regge la vita borghese non sono altro che inganni e schermi che danno un senso di rispettabilità e un'apparenza di equilibrio che è alla base dell'esistenza umana. Egli elabora molteplici strategie per sottrarsi a quei valori, pur continuando a rispettarli, per condurre una vita borghese seppur non partecipandovi attivamente. Ad ogni passo egli scopre, così, l'imprevedibilità della vita, la sfasatura tra l'idea che ognuno ha di sé e ciò che effettivamente accade. Nel corso di un dialogo con Guido, una casuale associazione di parole lo porta a coniare un'ironica definizione, in cui si può riassumere tutto il senso delle vicende del romanzo: "La vita non è né brutta né bella, ma è originale…" Tutto il vivere si risolve in un '"enorme costruzione priva di scopo", in qualche cosa di "bizzarro" e di strano, che fa concludere che "forse l'uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene".
Come individuo, Zeno è smemorato, distratto, dimentica l'ora in cui deve sposarsi, sbaglia funerale, si sente indebolito, ma, nello stesso tempo, si ritiene superiore agli altri. E' L'uomo delle contraddizioni. E ciò da cui egli trae maggiormente linfa vitale, è la Malattia, punto di partenza e di arrivo della sua coscienza. Essa diviene per il protagonista strumento fondamentale di conoscenza, perché può rivelargli le contraddizioni più nascoste della realtà, l'inganno che si nasconde sotto le apparenze sociali, tanto che arriverà a dire: "la malattia è una convinzione e io nacqui con quella convinzione…"
La malattia si presenta come nevrosi, abito etico, patologia psico-mentale, paura di invecchiare e di morire. Una malattia che molto spesso è immaginaria, che egli vuole vedere sia in sé sia negli altri e in cui ama vivere e da cui potrà uscire solo affidandosi alla fuga e al caso. E a questo punto interviene proprio il caso , ovvero l'incoerenza della vita che lo dichiara, così, vincente: addirittura, l'arrivo della guerra lo farà arricchire.
Nell'ultimo capitolo, l'abbandono della cura si collega alla frattura tra il protagonista, oramai vecchio, e le sue avventure precedentemente narrate. E' certo, comunque, che la frattura su cui l'opera si chiude è segnata fortemente dall'incombenza della guerra: questa si pone anche come segno simbolico dell'uscita da un'epoca, della rottura di un mondo compatto quale era stato, al di là dei suoi precari equilibri, quello del giovane Zeno, della nuova minaccia di distruzione che incombe sul mondo borghese.
Raggiunto improvvisamente da una guerra che aveva creduto fino all'ultimo lontana, Zeno si accorge che la sua malattia ed il gioco dei suoi desideri gli hanno fatto ignorare la realtà. E proprio da questa presa di coscienza, Zeno sembra ottenere la guarigione, che lo riconduce, però, ad allargare lo sguardo alla malattia, alla crisi che ha colpito l'intera civiltà umana: nella pagina finale del romanzo, Zeno, dopo aver ripercorso le tappe fondamentali della propria vita, prende coscienza dell'inutilità della psicoanalisi, che non avrebbe mai potuto curare né lui né il mondo. Il suo pensiero, allora, estendendosi all'essere umano, decreta l'inquinamento radicale della vita, fra pulsioni esistenziali connaturate all'uomo e la crisi degli ideali salvifici dello scientismo positivistico e dell'ottimismo della società borghese, nonché sull'esperienza negativa della Grande Guerra e dell'avvento del Ventennio Fascista.
L'uomo, a differenza dell'animale, con la sua scienza distruttiva, ha sovvertito ogni equilibrio biologico, contravvenendo alla legge della selezione naturale, da cui si è distaccato con la creazione artificiosa di ordigni distruttivi. Egli non si rende conto che più si allontana dalle leggi della natura, più decreta la propria debolezza e quindi la malattia. Questa può facilmente degenerare nel delirio e nella follia, sino alla catastrofe finale, che, con un'esplosione enorme, ridurrà la terra allo stato di nebulosa.
Notevole influenza sull'opera sveviana ebbero le teorie filosofiche di Schopenhauer, Nietzche e Freud, che si andavano diffondendo nei primi anni del '900, quando Svevo scriveva i suoi romanzi. Nella sua natura, infatti, confluiscono filoni di pensiero contraddittori e, addirittura, inconciliabili: da un lato, il positivismo; dall'altro, il "pensiero negativo" degli esistenzialisti e l'evidente influenza degli studi psicoanalitici.
Dal positivismo egli riprende la fiducia nell'"onnipotenza" del metodo scientifico, applicato allo studio della realtà, e il rifiuto di qualunque ottica di tipo metafisico, spiritualistico o idealistico, nonché la tendenza a considerare il destino dell'umanità nella sua evoluzione complessiva. Per quel che riguarda il rapporto con Schopenhauer, pur riprendendone alcuni strumenti di analisi e di critica, non accetta la proposta di una saggezza da raggiungersi attraverso la "noluntas", ovvero la rinuncia alla volontà e il sacrificio degli istinti vitali. Lo stesso atteggiamento Svevo rivela nei confronti di Nietzche e di Freud: il primo, infatti, è, per l'autore , il teorico della pluralità dell'io e il "demolitore" dei valori della moderna società borghese occidentale, certamente non il creatore del mito dionisiaco, fatto di razionalità, orgia e passione sfrenata; così come Freud si rivela un maestro nell'apprendimento delle teorie psicoanalitiche sull'ambiguità dell'io e nella comprensione materialistico-razionalista dell'inconscio, ma naturalmente non è accettato da Svevo sul piano dell'ideologia, ossia della visione totalizzante della vita e della terapia medica.
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