L'opera rappresenta il massimo approdo artistico dello Sperimentalismo linguistico e dell'analisi psicologica dell'autore che, rifacendosi alle peregrinazioni dell'Ulisse omerico, trasforma quelle peripezie nei movimenti di Leopold Bloom e del giovane Stephen Dedalus, per le strade di Dublino. I due personaggi sono destinati ad incontrarsi per una sorta di reciproco richiamo: l'uno, Leopold (Ulisse), rappresenta il "padre" che va alla ricerca del figlio, essendogliene morto uno in tenera età; l'altro, Stephen (Telemaco), raffigura il "figlio", che va alla ricerca di un padre che possa compensarne le carenze affettive e gli squilibri mentali ed interiori. Tutto ciò accade nell'arco dell'intera giornata del 16 giugno 1904 nella città di Dublino, dove avvengono l'incontro e la reciproca identificazione dell'uno nell'altro, con il finale ricongiungimento a casa di Leopold e di sua moglie Molly (Penelope).
Joyce imposta l'opera su una suddivisione in tre momenti:
- la prima parte, "Telemachia", ovvero il figlio alla ricerca del padre;
- la seconda parte, "Odissea", ovvero le peregrinazioni di Leopold alla ricerca del figlio;
- la terza parte, "Nostos", cioè il ritorno dei due a casa.
L'opera, però, non nasceva come un caso isolato, bensì si collocava come continuazione di due opere precedenti, "Dubliners" e "A portrait of the artist as a young man". Ne ereditava gli spunti autobiografici e le vicende interiori di alcuni personaggi, come Stephen Dedalus, ma, allo stesso tempo, ne approfondiva anche l'analisi psicologica, allargando lo sguardo alla città e smascherando la realtà desolata che essa racchiudeva e i suoi effetti sull'individualità.
E la singola giornata che Joyce descrive riassume in sé tutti i valori negativi della moderna società postbellica: oramai non c'è più posto per l'autenticità dei rapporti umani, ma solo per le ipocrisie, per le volgarità, per le alienazioni, per il rifugio nelle fantasticherie sessuali (come in Molly Bloom), capaci di compensarw la tristezza e la mancanza d'amore.
Ed è proprio in questo caso che si può parlare dell'"Ulysses" come "Odissea moderna": non più l'eroe classico, risoluto nei propri intenti, fermo nelle certezze, uomo d'ingegno e di grande forza interiore; ma l'uomo del '900, con la coscienza frantumata e i valori dissacrati, con le paure e le inquietudini; "l'uomo che ai mari sterminati sostituisce l'opprimente città, che trasforma il mito nella caotica società urbana". Ed è su quest'uomo che si posa l'occhio di Joyce, come testimone impietoso, ma anche sofferto, della crisi della nostra civiltà.
La grande rivoluzione dell'"Ulysses" si ha, proprio, nella particolare tecnica narrativa di cui si serve Joyce, il "flusso di coscienza", e di cui il monologo di Molly è il migliore esempio. Esso si risolve nell'adesione immediata dello scrittore allo svolgersi dei pensieri, delle percezioni sensoriali, degli stati d'animo, delle emozioni, delle associazioni di pensieri, colte in una zona della psiche in cui le parole scorrono fluide e libere, caotiche e disordinate, prive di strutture causali e consequenziali. Ciò significa, quindi, disgregare sintatticamente la frase, abolire la punteggiatura, sperimentare nuovi linguaggi e nuovi stili, deformare le parole ed eliminare ogni ordine logico-grammaticale.
Con il flusso di coscienza il narratore funge da "registratore del pensiero", riproducendolo allo stato puro, nel suo attuarsi. E' questo un "viaggio all'interno della coscienza", dove l'autore "si è proposto non soltanto di rendere, nei minimi particolari, con estrema precisione e bellezza, gli spettacoli e i suoni tra cui si muovono i suoi personaggi, ma, rivelandoci il mondo come essi lo percepiscono, di scoprire quel vocabolario e quel ritmo che, unici, possano rappresentare il pensiero di ognuno."
E l'arte di Joyce è pienamente riuscita nei suoi intenti.
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