La disperazione carnale di Francis Bacon

Dipingere il malessere di una società che rifiuta il dolore, che espelle la sofferenza, il decadimento fisico, l’idea stessa della morte, una società che annulla la vita rinunciando al suo sapore in nome del benessere di un’altra idea di vita, mentre la morte lavora giorno dopo giorno dall’interno.


I volti di Francis Bacon sono spettri che aprono il loro interno mostrando il disfacimento morale, mentre i colori non sono immagini, riflessi aerei, flussi di luce che immergono il dolore nell’aria e nell’emozione impressionista dell’attimo, ma sono nel corpo, attraversano il corpo, sciogliendolo nelle sensazioni che esprime. E siccome per Bacon il "secolo breve" è il secolo dell’orrore, delle nefandezze, dell’angoscia, dei soprusi, l’oggetto deve esprimere la rabbia deformata e mutilata. Lo spettro apre la carne mostrando l’incessante lavorio della morte, attimo dopo attimo. La forza invisibile, il malessere che scorre nel mondo, l’orrore del quotidiano, uscendo allo scoperto e mostrandosi allo sguardo, non è una materia o un oggetto di per sé, ma una forza invisibile, un’entità che trascina il male dell’anima all’esterno. Nei suoi dipinti Bacon restituisce questa forza invisibile utilizzando vari sistemi: movimenti del corpo, riflessi di superfici, sfocature di parti del dipinto. Il fuori fuoco in particolare serve a Bacon per deformare la rappresentazione dei corpi allo scopo di sfigurarli, e le zone fuori fuoco dei dipinti si concentrano di solito sulle figure umane attraverso parti cancellate, quasi buttate nel gorgo dell’inespresso, o immagini riprese nella loro rotazione o sviluppo temporale.
Si notino in particolare i volti dei suoi quadri, le dissolvenze delle membra (Bacon era influenzato dal cinema e in particolare da Luis Bunuel), gli specchi frastagliati ed evanescenti. Nei titoli di testa di Ultimo Tango a Parigi, si vede, nella parte sinistra dello schermo, un quadro di Francis Bacon raffigurante un uomo sdraiato su un letto, dai colori saturi ove dominano il rosso e l’arancione. Dopo pochi minuti il quadro lascia il suo posto, nell’altra metà dello schermo, ad un altro dipinto di Bacon che raffigura una donna seduta al centro della stanza. Qui dominano colori freddi (rosa e azzurro). Dopo i titoli di testa, prima dell’incipit, i due quadri si affiancano nello schermo. Stiamo entrando nel film attraverso la pittura di Bacon. Nell’incipit ci troviamo davanti a un Marlon Brando che vaga disperato in una Parigi ancora intrisa di Nouvelle Vague, colto nel momento in cui lancia un urlo sotto la soprelevata parigina, mentre la Schneider cammina velocemente con aria rilassata. Il dolore dell’uomo e l’ingenuità della donna si incontreranno nell’appartamento vuoto, avvolto in una semi oscurità color arancio. Questo uso del colore e di questa luce arancione, preso direttamente da Bacon, influenza il plot e la storia, anzi determina e dirige gli incontri nella stanza-quadro, nella gabbia in cui gli attanti sono “liberi” di muoversi e di esprimere la loro sessualità. La stanza diventa così l’inferno di una umanità disperata, trasportando nel gorgo degli inferi anche la beata innocenza della gioventù, la spontaneità con la quale Jeanne accetta di “subire” la morte in atto che imprigiona “fuori dal tempo” (perché il tempo del cinema viene scandito fuori dall’appartamento) e dentro l’anima corrosa dall’attesa.

La deformazione del materiale si esplica attraverso le grandi sale deserte, come abbandonate, della casa vuota, ma anche attraverso gli oggetti e le pose plastiche assunte da Paul e Jeanne. Ad un certo punto si vede lei riflessa in uno specchio rotto situato oltre una porta aperta. L’immagine è distorta, evanescente, rotta. L’unità prospettica dello spazio (come quella cronologica del tempo) è segmentata e de-costruita nelle in-formazioni deformanti, riportando un possibile futuro in atto (anche lei morirà dentro?). Il sapere falsificante emerge improvviso quando vediamo far capolino il volto ancora apparentemente felice ed entusiasta della ragazza, pronto e attento ad osservare la misteriosa posa plastica di un uomo che ha già perso la sua gravità logica. Lo sguardo, in altri termini, viene continuamente dirottato e allontanato, illuso e colluso col mezzo di ripresa, con lo sguardo indignato e “perverso” (nel senso che è pertinente al verso “giusto” e conforme del senso comune del pudore) dell’ordine pubblico o di una magistratura che di lì a poco condannerà il film al “rogo” perpetuo. Ma la connessione extrasensoriale della vista si lega alla “tattilità” dell’immagine. Se l’icona si corrompe e si deturpa nella sua dimensione tattile o aptica, allora non si tratta di voler vedere distintamente; e per questo secondo me il film non è un film “osceno, amorale e improponibile”, ma è un film che ci trasporta (almeno nelle parti girate in interno) dentro la pittura di Bacon, mostrandoci direttamente la morte al lavoro, attimo dopo attimo, intenta a consumare anche la storia più romantica (che non è quella tra Tom e Jeanne ma tra Jeanne e Paul). Le due uniche vere tematiche, le uniche due super storie (e mi scusino tutti coloro che amano la “trama”) si riducono e si allineano ai due momenti topici della vita: Eros e Thanatos. Tutto si adegua e si conforma, deriva, ritorna, fugge, si colloca in questi due unici temi. Ciò che trasforma questa desolazione, questa attesa ansiosa e impudente, in questo caso è la luce crepuscolare striata d’arancio, quasi per concretizzare, dare un forma o, meglio, quasi per sformare Thanatos; ma bisogna considerare anche le innumerevoli “lenti” sparse nei vari appartamenti come l’appartamento alcova dei nostri due eroi oppure l’appartamento dove la moglie di Paul si è suicidata. Queste lenti sono riflessi nello specchio, vetrate colorate e smerigliate che deformano volti, scene imprecise (ove si vedono a fatica i movimenti degli attori), specchi rotti, tende macchiate di sangue, pioggia sui vetri che deforma lo sguardo.

L’immagine, allontanata dalla sua nitidezza e velata dai colori e dalle sfumature della morte, è come se venisse toccata (“tango” in latino “io tocco”) dalla figura aptica della morte. Qui il tempo non esiste proprio perché l’esperienza tattile, il freddo alito che genera un tocco angosciante, la disperazione della privazione e della ricerca di un surrogato inequivocabilmente impossibile (la stanza è un rifugio che dura al massimo il tempo di una proiezione) hanno ridotto le ellissi, forse annullate. La moglie è morta da poco tempo, si trova ancora adagiata nello squallido albergo nel suo feretro, immobile, bellissima (perché truccata) ma inespressiva, partecipe allo sguardo che allinea e colora ma ormai vanamente incalzata dalle domande di Paul. Il suo sguardo è diretto verso l’alto e non vedremo mai una sua soggettiva, perché siamo già da tempo dentro la soggettiva aptica di Bacon-Bertolucci.

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