SCIPIONE DETTO ANCHE L'AFRICANO (1971)

Il Senato è costruito sui ruderi della Roma dei ricordi. Pezzi di capitello, avanzi di muro, ipotesi di strade. Girare per la città significa godersi lo stesso spettacolo: pastori che guidano il gregge, soldataglie che di tanto in tanto biascicano le loro malelingue sulla “politica zozza”, provinciali che farebbero di tutto per uccidere i propri genitori e rinascere nel cuore della capitale.

Giove capitolino, dal canto suo, è molto capitolino e molto poco divinità. È lui stesso a dirlo: “ma che sò ‘n dio serio io?”. La Lupa stessa di Roma non parla il vernacolo romanesco forse solo perché non ha la facoltà della parola: per il resto si vede ben poco. Più che altro la si immagina come una specie di cane spelacchiato.Non so se Publio Cornelio Scipione (detto anche l’Africano) avesse per davvero a che fare con questi spazi fisici. Francamente non credo. Ma se il regista Luigi Magni, nel 1971, decise di girare un film in cui far muovere il vincitore di Cartagine in ambienti di questo genere non fu certamente, per esigenze di produzione. Al contrario: la presenza di un paesaggio decadente fin nella sua fisicità sembra richiamare chiaramente l’agonia della virtus romana. Già, quella che aveva permesso a un popolo piegato da Annibale, che poteva considerarsi vincitore a tal punto da concedersi gli “ozi di Capua”, di ribaltare la situazione e costringere il generale cartaginese a vagare per il deserto “e parlà solo come un matto”.

Perché intorno a Scipione non ci sono solo le rovine delle glorie passate. C’è Catone, che accusa lui e suo fratello (Lucio Cornelio Scipione detto anche l’Asiatico, “pe’ piacere…”) di aver intascato i cinquecento talenti che il re di Siria Antioco avrebbe dovuto versare come tributo a Roma; ci sono i senatori, tra i quali “er più pulito c’ha la rogna”; ci sono i soldati, sempre pronti a dare una pugnalata all’odiato censore in nome del legame ideale col vincitore di Zama (“ma so pure cose che se dicheno pe’ compiacenza…”). E c’è anche un esercito davvero disposto a fare la guerra civile e ribaltare il Senato, giovani donne che per alleviare i brutti pensieri di Scipione gli si parano davanti nude in mezzo alla strada, un filosofo scettico che invita a fare spallucce di fronte agli intrighi della politica, degli schiavi che gozzovigliano e reagiscono con disappunto di fronte all’ipotesi di tornare uomini liberi (“che è stò bene supremo, ahò?”).
Nella (personalissima) visione della storia di Luigi Magni Scipione è quasi quella che Pasolini avrebbe definito “una forza del passato”, un uomo grande che si confronta con le piccolezze e le meschinità di un tempo nato indifferente a lui e a ciò che aveva preparato. Scipione ladro? Magari!, risponde la moglie. Magari avesse intascato per davvero quei cinquecento talenti: così sarebbe un po’ più simile a noi, un po’ più mediocre, un po’ più opportunista. E non darebbe fastidio: non starebbe sempre lì a far pesare (anche involontariamente) la sua superiorità morale, non ci costringerebbe di continuo a ripensare il nostro abituale modo di guardare al mondo. E invece no: lui quei soldi davvero non li ha mai visti.
Chi li ha visti, invece, è il fratello. Che fin da piccolo aveva le mani lunghe, che l’onore romano “…ahò, ste’ cose saranno pure belle ma io nun l’ho mai capite”, che sopravvive benissimo a tutto. Che è uno Scipione, ma è anche uomo dei tempi nuovi. Che gozzoviglia insieme agli schiavi, che minimizza sull’ira del fratello di fronte alla sua “casa onorata” frequentata da gente che cerca di uccidere la noia illudendosi di rimorchiare mignotte e riempiendosi lo stomaco delle leccornie provenienti dalle conquiste di guerra. Lui sì che li ha visti quei soldi. Ma a Roma non interessa, per Roma non conta. Ciò che conta è sempre e solo l’Africano. Parola di Catone.
Già, perché il censore non vuole sapere quale dei due Scipioni ha intascato i soldi del re di Siria. È un politico troppo smaliziato per scandalizzarsi di queste cose e, soprattutto, sa guardare troppo in avanti per preoccuparsi sul serio di una pur ingente sparizione di denaro pubblico. Lui guarda alla Repubblica. La ama, sa che è grande ma sa anche che affinché le Repubbliche siano grandi gli uomini devono essere piccoli, mediocri, poca cosa. È il cinico realismo di chi guarda al mondo coi piedi per terra e la testa a debita distanza dai piedi: i corrotti sono opportuni, perché non realizzeranno l’ideale sogno di Platone ma si accontentano e non suscitano nel popolo umori e speranze pericolose. Non diventeranno mai capi indiscussi: sono discutibili persino da se stessi!
Ebbene, l’Africano non è un corrotto. È integro, integerrimo. Non si accomoda con soluzioni di pragmatica opportunità e il popolo potrebbe finire per stravedere per lui. Quindi il punto non è capire se per davvero ha rubato i soldi versati da Antioco: il punto è stabilire che li ha intascati. Così è un po’ come tutti gli altri: con qualche vizio e qualche debolezza. Purché la Repubblica viva. Perché le rovine della virtus non le vede mica solo Scipione: anche Catone vede che lui di notte vigila e studia mentre le guardie preposte alla salvaguardia della sua persona dormono beatamente. Anche lui vede sua madre, bianca di un candore antico, vegliare quando cala il sole per essere vigile al momento della propria morte. Nulla di personale con l’Africano (anzi, mentre lo accusa un gatto gli infila gli artigli tra i vestiti, quasi a sottolineare che il dolore di Scipione non può non significare anche il dolore di Catone), ma se il mondo cade a pezzi bisogna eliminare ogni possibile mina vagante. Anche lui.
Perderanno entrambi. Scipione sceglierà l’esilio malgrado in Senato si chieda clemenza per la sua persona (o forse proprio perché il “senato scordarello”, che non ricorda nemmeno che il 18 ottobre è l’anniversario della battaglia di Zama, si permetterà di accordargli la sua magnanima benevolenza) e Catone non saprà mai che Licia, serva fedele del suo avversario-alter ego e metafora dei valori della Repubblica, morirà suicida.
Su tutto questo scenario, in cui pullulano continuamente riferimenti alla condizione della politica e della società italiana degli anni Settanta (ma anche odierna), domina il dialetto (in verità più italiano regionale) romanesco che Magni mette in bocca ai suoi personaggi, mostrando così le passeggiate della Storia a braccetto con la nostra storia, la dimensione quotidiana di ciò che è stato destinato a diventare oggetto di libri, riflessioni e (guarda il caso) film. 

Scipione l’Africano e Catone il Censore sono interpretati da Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. La moglie di Scipione, Emilia, ha il volto di Silvana Mangano. Massinissa è reso da Woody Stroode. Giove capitolino da Turi Ferro. Mentre Ruggero Mastroianni, solitamente montatore, questa volta ricopre perfettamente il ruolo del fratello di Scipione. Le musiche (bellissime) sono di Severino Gazzelloni.

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